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Apple agita il movimento sul diritto alla riparazione

Riparazione - Blaz Erzetic via Unsplash

Immagine in evidenza: Riparazione – Blaz Erzetic via Unsplash

Viaggiamo indietro nel tempo di dieci anni e fermiamo un passante. Chiediamogli se abbia mai acquistato un telefono o un computer ricondizionato. Probabilmente, ci risponderà con sguardo interrogativo.

Avanti veloce e nel 2022 il mercato dei computer e degli smartphone ricondizionati, insieme, vale circa 70 miliardi di dollari. Si tratta di un circuito globale fatto da consumatori che vendono i propri dispositivi quando hanno concluso il loro primo ciclo di vita, di riparatori in grado di rimetterli in sesto, di rivenditori specializzati in dispositivi ricondizionati (ovvero riparati e riportati al massimo delle possibilità alle condizioni di fabbrica) e, infine, di consumatori interessati a smartphone e laptop di seconda mano ma rimessi a nuovo.

Questo meccanismo funziona dal punto di vista economico e permette a oggetti che hanno perso valore nei mercati ufficiali di diventare nuovamente dei prodotti a tutti gli effetti. Inoltre, permette ai consumatori di acquistare dispositivi tecnologici performanti a prezzi contenuti. Funziona anche dal punto di vista ambientale, contribuendo ad abbattere l’impatto di un mercato che genera moltissime emissioni e i cui prodotti sono ormai parte integrante del tessuto socio-economico umano.

Cosa chiede il movimento per il diritto alla riparazione

Un meccanismo che però a volte ancora incontra attriti e frizioni. Nel 2018, ad esempio, Apple ha iniziato a introdurre nel design dei propri dispositivi un chip, il T2, dedicato ad alcune funzioni di sicurezza: l’archiviazione codificata e l’avvio protetto. Quest’ultima funzione introduce nei dispositivi più recenti di Apple il blocco di attivazione, un sistema di sicurezza pensato ”per impedire ad altre persone di usare il tuo Mac nell’eventualità che venga smarrito o rubato.” Sulla carta, non fa una piega.

Peraltro, non è la prima volta che vengono implementati sistemi anti-furto di questo tipo: nel 2015, Google ha introdotto il sistema FRP (Factory Reset Protection) per svolgere la stessa funzione attraverso l’account Google. In passato, Intel ha utilizzato (e poi dismesso nel 2015) un sistema simile: Intel Anti-Theft System, che permetteva agli utenti di disabilitare da remoto un dispositivo rubato di loro proprietà.

Questo tipo di funzioni cercano di soddisfare delle esigenze di sicurezza fondamentali, ma spesso rendono più complessa la manipolazione di un dispositivo anche quando viene svolta per motivi leciti. Questo nodo è uno dei temi di discussione centrali, per esempio, del movimento globale per il Diritto alla Riparazione, che da anni promuove iniziative per convincere le grandi aziende tecnologiche a diffondere le informazioni necessarie alle riparazione dei dispositivi che producono e a progettare prodotti pensati, sin dall’inizio, per essere facilmente riparabili.

Indipendenza dal produttore e impatto sull’ambiente

Questo movimento assume una rilevanza evidente soprattutto quando viene messo in conto l’impatto ambientale della non-riparabilità dei dispositivi tecnologici. Non si tratta, però, solo di sostenibilità: per il movimento per il Diritto alla Riparazione, poter manipolare a piacimento un prodotto tecnologico che si è acquistato significa anche rendersi indipendenti dall’azienda che lo ha sviluppato. In questo senso, è un caso noto quello di John Deere, la gigantesca azienda americana di trattori e strumenti per l’agricoltura che ha raggiunto un primo accordo con le associazioni di agricoltori per superare delle limitazioni sulla possibilità di riparare in autonomia i suoi prodotti. “In precedenza, gli agricoltori potevano utilizzare solo i ricambi e i centri di assistenza autorizzati invece di opzioni di riparazione indipendenti più economiche”, scrive BBC.

Nel corso del tempo, il movimento per il Diritto alla Riparazione ha saputo ottenere vittorie sia dal punto di vista istituzionale, con l’introduzione del dibattito all’interno del Parlamento Europeo, che da quello corporate, come quando nel 2021 Apple ha annunciato che avrebbe iniziato la vendita al dettaglio di componenti sostitutive per i propri dispositivi. Ciononostante, la possibilità di riparare un dispositivo è spesso legata anche ad aspetti tecnici specifici che non sempre vengono progettati con in mente tutti i possibili casi d’uso.

Apple, Microsoft e Google sotto la lente

Nei giorni scorsi, l’associazione americana PIRG ha pubblicato un’analisi e scheda di come diversi produttori di laptop e cellulari si posizionino rispetto alla possibilità di riparare i loro dispositivi. A uscirne peggio sono Apple, Microsoft, e Google.

Le aziende tecnologiche vengono votate per la loro capacità di progettare dispositivi riparabili e di assistere i propri clienti in questo senso. Voti alti se lo fai, voti bassi se non lo fai. Prima di tutto, dall’analisi emergono dei punti generali che descrivono l’attuale stato di salute del diritto alla riparazione: a) i produttori di tecnologia si stanno lentamente muovendo nella giusta direzione, b) un dispositivo costoso non equivale sempre a un dispositivo riparabile, c) i produttori devono migliorare la possibilità per i clienti di acquistare componenti sostitutive e di accedere alle schede tecniche dei dispositivi, d) le aziende stanno attivamente facendo lobbying contro le riforme a favore del diritto alla riparazione. 

A partire da questo quadro generale, che descrive un’industria che si sta lentamente aprendo al diritto alla riparazione ma che, al tempo stesso, cerca attivamente di rallentare questo processo, ci sono delle note di merito e demerito. “Dell ha ricevuto il punteggio più alto per i laptop, con una B+. Anche Asus è arrivata a B+, mentre HP ha preso una B. Acer e Lenovo invece una B-. Microsoft una D+ e Apple una D-,” si legge nell’analisi di PIRG. Per quanto riguarda i telefoni, invece, Motorola continua a condurre la classifica con una B+, poi Samsung con una C, Google con una D+ e Apple con una D – migliorando la F presa nel 2021. In ogni caso, Apple arriva ultima in entrambe le categorie.

Come funziona l’Activation Lock

Nei giorni scorsi alcuni blogpost e tweet di chi si occupa di dispositivi ricondizionati hanno riportato di nuovo l’attenzione sul blocco di attivazione di Apple. Nei modelli più recenti di Mac, il blocco di attivazione (Activation Lock) è in funzione non appena si attiva la funzione Dov’è, quella grazie alla quale è possibile geolocalizzare il proprio dispositivo in caso di furto o smarrimento. Il blocco di attivazione richiede l’inserimento dei dati dell’Apple ID del proprietario per inizializzare il dispositivo o disattivare la funzione Dov’è. Se non si hanno questi dati, il dispositivo diventa pressoché inutilizzabile, considerato che non è possibile bypassare l’Activation Lock nemmeno con un reset alle impostazioni di fabbrica. Come spesso accade quando si parla di tecnologia, le reali conseguenze di alcuni meccanismi si rivelano solo quando si analizza il problema da lontano.

L’appello di un riparatore

Il 22 gennaio, un riparatore di dispositivi tecnologici di nome John Bumstead lancia su Twitter un appello a Tim Cook, chiedendogli perché stiano rendendo inutilizzabili così tanti Mac funzionanti e con pochi cicli di batteria. La presenza dell’Activation Lock sui dispositivi venduti negli ultimi anni li rende automaticamente privi di valore una volta che vengono venduti o ceduti a dei riparatori: senza la possibilità di effettuare il login con l’account Apple ID del proprietario originale, infatti, non sarà possibile utilizzarli a dovere e potranno, al massimo, essere venduti per il valore dei loro materiali.

Non si tratta solo di complicare le procedure quando il dispositivo usato viene acquisito da un comune utente, che potrebbe idealmente risultare raggiungibile per lo sblocco dell’Activation Lock. I problemi, come sottolinea Bumstead, si moltiplicano quando i riparatori acquistano dispositivi in blocco da uffici o scuole, che periodicamente sostituiscono in massa il proprio parco tecnologico. Bumstead sostiene che molti riciclatori, che hanno richiesto di restare anonimi, abbiano già iniziato a mandare al macero i dispositivi muniti di Activation Lock.  Secondo alcune testimonianze di riparatori, migliaia di computer, tablet e smartphone sarebbero dunque gettati con la sola possibilità  di recuperare le parti composte da materiali di valore.

In realtà, come sottolineato dalla newsletter Fight to Repair, ad oggi Apple ha disposto una procedura per disattivare l’Activation Lock, ma prevede che il nuovo proprietario del dispositivo possa ottenere l’autorizzazione allo sblocco da parte del proprietario originale: fare ciò non è sempre possibile.

“Apple trae benefici dall’Activation Lock in diversi modi, ma non credo si tratti di un piano pensato a tavolino. Per Apple, e per tutti noi, è molto più facile evitare di guardare nello specchietto retrovisore per osservare il disastro che ci siamo lasciati dietro,” commenta Bumstead, contattato da Guerre di Rete per un’intervista (anche Apple è stata contattata per un commento ma al momento della pubblicazione non abbiamo ricevuto risposta). “Lo facciamo tutti – scegliamo di ignorare i mattatoi da dove arriva la carne che mangiamo, e scegliamo anche di ignorare i mattatoi in cui i nostri dispositivi elettronici vengono distrutti. È semplicemente qualcosa che non vediamo nella nostra vita quotidiana, e ce ne importa solo in teoria – non in pratica.”

Al momento, la situazione sembra essere in stallo. Apple ha semplificato la procedura per permettere agli utenti originali dei dispositivi di disattivare l’Activation Lock prima di venderli. Ma si tratta comunque di una toppa.

Possibili proposte e soluzioni

Il problema che l’Activation Lock cerca di risolvere, però, è un tema di sicurezza non indifferente. “L’Activation Lock è un software, e per sua vera natura può evolversi,” spiega Bumstead dopo che Guerre di Rete gli ha chiesto se esista un modo per tutelare sia la sicurezza che la riusabilità di un dispositivo. “L’Activation Lock dovrebbe evolversi per permettere una procedura di sblocco molto specifica e molto restrittiva. Per esempio, un individuo con un dispositivo, o un riciclatore con 1000 dispositivi, potrebbero fare login nel loro account Apple, cliccare su “richiedi sblocco” e inserire un codice seriale. A questo punto, Apple potrebbe effettuare delle indagini e dopo 30 giorni senza che sia emerso alcun segnale sospetto, il dispositivo potrebbe sbloccarsi da solo. Se qualcuno subisce un furto, può segnalarlo ad Apple così che quel dispositivo venga segnalato come sospetto e gli venga impedito di sbloccarsi.” 

Il problema dell’Activation Lock, così apparentemente specifico, non soltanto ha già prodotto conseguenze quantitativamente concrete, ma si inserisce anche nel quadro più ampio del movimento globale per il Diritto alla Riparazione. Nel tempo, molti governi hanno varato misure a sostegno del diritto alla riparazione che secondo una ricerca pubblicata su Management Science, potrebbero però spingere le grandi aziende tecnologiche a progettare nuove funzioni pensate per mitigare la perdita di profitti dovuta alle leggi.

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